I media australiani hanno riportato di recente la storia di una donna, al settimo mese di gravidanza, deceduta in ospedale dopo aver ha rifiutato, per motivi religiosi, una trasfusione di sangue che le avrebbe probabilmente salvato la vita. Il caso è stato descritto nel dettaglio dall’Internal Medical Journal.

La Legge italiana prevede l’obbligo del consenso scritto del paziente sottoposto ad una trasfusione di sangue ed emoderivati. Per capire cosa potrebbe succedere, in caso di dissenso alla cura trasfusionale, abbiamo rivolto alcune domande all’Avv. Silvia Sorrentino, civilista-coordinatore giustizia dirttii-Cittadinanzattiva-Tribunale dei diritti del malato, Riviera del Brenta.
 
– Avvocato, cosa deve fare il medico, in Italia, nel caso in cui vi sia esplicito dissenso da parte di un paziente a ricevere una trasfusione di sangue salvavita?
 
Alla luce dell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale si può oggi affermare che nel caso in cui il paziente manifesti validamente il rifiuto di cura,  il medico dovrà desistere dal procedere con il programma trasfusionale anche se di  sostegno vitale. Nella contrapposizione dei principi che governano la questione si è ritenuto che il dovere di cura che incombe sul  medico, pur titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente affidato alle sue cure,  non possa mai prevaricare i diritti inviolabili all’autodeterminazione di ogni essere umano,  costituzionalmente protetti.
 
I principi del “consenso informato” e del “rifiuto informato”, intesi come sintesi dei diritti all’autodeterminazione e alla cura, sono ormai consolidati nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Cassazione Penale e Civile nonché dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. E’ anche vero che di fronte al rifiuto di cure c’è spazio, nel quadro dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente, per un’azione di persuasione e c’è il dovere da parte del medico di verificare le ragioni profonde del rifiuto e la possibilità di superarle, ma non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi e di vivere come principio di ordine pubblico (in questo senso si vedano le sentenze della Suprema Corte di Cassazione del 16/10/2007 n. 21748 e 15/09/2008 n. 23676). Il principio all’autodeterminazione consapevole alla cura, trova il suo fondamento giuridico negli articoli 13 e 32 della nostra Carta Costituzionale che garantiscono il primo la libertà individuale ed il secondo il diritto alla salute. L’art. 32 della Costituzione vieta i trattamenti sanitari obbligatori, salvi i casi previsti dalla legge.
 
La legge ordinaria qualifica i trattamenti sanitari, di norma, come volontari e l’emotrasfusione non è prevista tra i trattamenti sanitari obbligatori (Legge 833/78 3 Legge 180/78). Peraltro, nello specifico ambito delle terapie trasfusionali la necessità di un documentato “consenso informato” ha trovato specifica disciplina regolamentare. Disposizioni sul consenso informato sono, infatti,  contenute nell’art. 4 del D.M. 1/9/1995 del Ministero della Sanità che impone l’acquisizione del consenso mediante apposita dichiarazione scritta da allegare alla cartella clinica. Tale obbligo viene confermato anche dall’art. 11 del D.M. 3/3/2005 in forza del quale il ricevente la trasfusione di sangue o emocomponenti e/o la somministrazione di emoderivati, preventivamente informato dei rischi di tali procedure, è tenuto ad esprime il proprio consenso o  il dissenso. Anche il rifiuto alle cure (informato e consapevole) è quindi espressione del principio di autodeterminazione terapeutica e sarà perciò vincolante per il medico allorquando rappresenti una decisione maturata all’esito delle informazioni che l’operatore sanitario ha l’obbligo (anche deontologico) di rendere, tenuto conto dello stato psicologico del paziente e della sua capacità di comprensione.
 
Per quanto non si sia mai posto in dubbio il diritto all’ autoderminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, né tanto meno si dubiti della sua qualificazione come diritto personalissimo di rango costituzionale, affinché al medico sia consentito di astenersi dal procedere con la terapia trasfusionale (anche  se dallo stesso medico sia ritenuta in scienza e coscienza quoad vitam e senza  che via sia una valida alternativa terapeutica) è indispensabile che il dissenso  del paziente debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale ed informata. Viene perciò esclusa rilevanza a manifestazioni di intenzioni programmatiche quali possono essere contenute in un cartellino “no sangue”.
 
Il rifiuto alle cure non deve mai precedere l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione del pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile. Ai fini della sua validità, ritiene la Corte di Cassazione nel precedente n. 23676 del 15.09.2008 il dissenso deve suonare attuale e non preventivamente assunto in mancanza in qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute. In altre parole, il dissenso generico ed assunto in condizioni di salute deve essere puntualmente riaffermato in situazione di pericolo di vita.
 
Il rifiuto alle cure deve quindi esprimere una volontà “non astrattamente ipotetica, ma  concretamente accertata”; “un’ intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica”, “una cognizione dei fatti non soltanto ideologica, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria”.
 
Al realizzarsi di queste condizioni dovrà essere rispettata la volontà del paziente ed il medico dovrà astenersi dal praticare la terapia trasfusionale anche se salvavita.
 
– In questo senso vi è differenza tra pazienti coscienti ed incoscienti?
 
Assolutamente diverso è il caso del paziente che, in imminente pericolo di vita, non sia in grado di esprimere il proprio consenso, perché in stato di incoscienza o con ridotta capacità di intendere e di volere, oppure che non abbia capacità di agire, come nel caso di minorenne non accompagnato dai genitori.
In tal caso, infatti, il consenso alla terapia trasfusionale si presume.
 
In situazioni di emergenza terapeutica, ovvero di una situazione clinica a fronte della quale la mancata esecuzione di un determinato intervento provocherebbe la morte o un significativo aggravarsi delle sue condizioni ed il paziente non sia in grado di autodeterminarsi (o abbia espresso un generico preventivo rifiuto)  il medico ha l’obbligo di attivarsi e prestare le cure ritenute necessarie per la salvezza del paziente e quindi anche procedere con terapie trasfusionali.
 
L’ipotesi è disciplinata nello stesso decreto ministeriale del 2005 in materia di emotrasfusioni che consente al medico di procedere alla trasfusione anche senza il consenso del paziente. In tali situazioni, nella cartella clinica dovranno essere indicate, in maniera puntuale e particolareggiata le condizioni che determinano lo stato di necessità e che giustificano l’operato del medico in assenza del consenso esplicito che il paziente non è in grado di esprimere. Nei casi che comportano trattamenti trasfusionali ripetuti, il consenso si presume formulato per tutta la durata della terapia, salva esplicita revoca del paziente che si sia rimesso nelle condizioni di esprimere il rifiuto.
 
– Esiste una omogeneità nella legislazione a livello europeo?
 
Nel quadro europeo gli strumenti principali di armonizzazione sono rappresentati dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina il (Convenzione di Oviedo). 
 
Nel capo dedicato alla “dignità”, l’articolo 3 della Carta dei Diritti fondamentali, sancisce a chiare lettere che “nell’ambito della medicina e della Biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero ed informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge.
 
L’articolo 5 della Convenzione di Oviedo prevede espressamente che un intervento nel campo della salute “non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero ed informato”.
 
Sebbene in nessun ordinamento l’individuo venga riconosciuto quale padrone assoluto ed incondizionato della propria vita e del proprio destino biologico, è altrettanto vero che negli stessi ordinamenti vengono previsti margini di libertà sugli stessi aspetti. Molti Paesi  (fra cui quello Italia, Germania, Francia e Regno Unito) riconoscono il diritto al rifiuto di terapie anche di sostegno vitale, senza per questo riconoscere il diritto a morire.  La tutela dell’autodeterminazione individuale del fine vita si arresta solo di fronte a condotte volte a cagionare in forma diretta la morte della persona (eutanasia) riconoscendo, però, il diritto del singolo di esercitare un’ ampia prerogativa di rifiutare i trattamenti dalla cui interruzione possa derivarne la morte. 
 
In questi Paesi assume rilevanza penale sia l’omicidio del consenziente che l’assistenza al suicidio, ovvero quei casi in cui la causa della morte è esogena rispetto alla patologia.
Più che nell’ambito del diritto al rifiuto di cure, tendenzialmente riconosciuto in tutti i Paesi Europei, si riscontrano in Europa differenze più su questo secondo aspetto, estraneo all’ambito della questione posta, ovvero nel riconoscere la libera determinazione della persona in relazione alle fasi finali della sua esistenza permettendo  l’aiuto o l’assistenza al suicidio (Svizzera) o anche l’omicidio del consenziente (Olanda e Belgio).
 
– Secondo lei, potrebbe verificarsi in Italia  un caso di morte a seguito di rifiuto di una trasfusione di sangue?
 
Allorchè vengano soddisfatte le condizioni per consentire l’espressione di un rifiuto (consapevole ed informato) alla terapia trasfusionale e sia stato quindi consentito al paziente il concreto esercizio del diritto all’autodeterminazione nel rispetto dei criteri sopra esaminati, la risposta non potrà che essere affermativa.
 
In Italia, abbiamo visto, è riconosciuto il diritto a non curarsi anche se tale condotta esponga il paziente a rischio stesso della vita. Il conflitto tra due beni – entrambi costituzionalmente tutelati – della salute e della libertà di coscienza, per la Corte di Cassazione, non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicchè ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diverrebbe perciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali.
 
Il medico quindi dovrà fermarsi in presenza di un rifiuto della emostrasfusione da parte di un paziente capace, pur se tale obiezione derivi dal credo religioso del paziente.
 
– Esiste un conflitto tra il dovere deontologico del medico di salvaguardare la vita del paziente e una legge che impone di non intervenire in casi di ‘autodeterminazione’ legata al credo religioso?
 
Il codice di deontologia medica non si pone in contrasto con i principi vigenti nell’ordinamento italiano.
I criteri ispiratrici della condotta medica sono deontologicamente ben delineati laddove vengono posti i limiti etici all’operato del medico (il cui dovere è la tutela della vita e della salute fisica e psichica del paziente) riconoscendo come valore di riferimento dell’agire il rispetto della libertà e della dignità della persona umana.
Indubbiamente la concreta traduzione di tale principio può porsi in posizione contrastante con la libertà morale del medico. La questione potrebbe trovar soluzione con il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza in un ambito più esteso rispetto alle (limitate) ipotesi sinora previste dall’ordinamento giuridico. Rimane però certo che la tutela della libertà morale del medico non può spingersi a negare il diritto del paziente a non subire trattamenti indesiderati sul proprio corpo. L’esecuzione dell’emotrasfusione contro la volontà del paziente, oltre che illecita sul piano giuridico, è da considerarsi eticamente e deontologicamente scorretta.
 
– Che rischi corre il medico che interviene contro la volontà del paziente?
 
In questo caso il medico si pone in violazione delle norme di legge, anche di rango costituzionale che governano la materia.
Emblematica al riguardo la  sentenza resa dalla Corte d’Appello di Milano (n 2359  del 19 agosto 2011) che ha riconosciuto la responsabilità dei medici che hanno proceduto con la trasfusione “coatta” di sangue (attraverso l’impiego di una illegittima contenzione) nei confronti di un paziente che, per profondo convincimento legato al proprio credo religioso, l’aveva rifiutata opponendo un lucido, consapevole e fermo dissenso.
Il mancato rispetto della volontà del paziente ed il procedere nonostante il suo rifiuto, lede in un sol tempo il diritto all’autodeterminazione ed alla dignità  esponendo il medico a declaratorie di responsabilità che, in sede civile, daranno luogo al risarcimento del danno eventualmente cagionato e che, in sede penale, dipenderanno in larga misura dalle modalità con cui tale imposizione si concretizzi (potendo in ipotesi configurarsi il reato di violenza privata, se non anche di sequestro di persona)  oltre che dalle conseguenze che la terapia rifiutata abbia in concreto determinato (potendosi in astratto configurarsi il reato di lesioni piuttosto che di omicidio).
 
– Per la legge italiana, il diritto di una persona al rifiuto di un trattamento è un diritto fondamentale?
 
Il principio generale dell’autodeterminazione alla cura è chiara espressione dei diritti tutelati dalla nostra Costituzione. Il principio generale dell’autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, abbiamo avuto occasione di rilevare, si configura come vero e proprio diritto della persona che trova fondamento nei principi espressi dall’art. 2, che ne tutela e ne promuove i diritti fondamentali, e dagli artt. 13 e 32 della Costituzione.
Non pare revocabile in dubbio il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione della cura come diritto personalissimo di rango costituzionale, come peraltro ribadito dalle Sezioni Unite della  Corte di Cassazione nel 2008. Peraltro, con la legge 28 marzo 2001 n. 145  l’Italia ha autorizzato la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano in medicina e biologia.
Per quanto il percorso legislativo di adeguamento del nostro ordinamento ai principi della Convenzione non abbia ancora trovato attuazione e la stessa non risulti ancora formalmente ratificata, non si può dire che sia comunque priva di effetto nell’ordinamento. La convenzione infatti viene utilizzata come criterio interpretativo dei principi cui lo Stato intende uniformarsi.
 
– Può segnalarci recenti sentenze della giurisprudenza italiana, magari in  dissonanza con quelle di altri Paesi della U.E.?
 
Nel ripercorrere alcuni dei principali arresti richiamati in questo breve scritto è evidente che nella giurisprudenza italiana, al di là di isolate pronunce di merito, appare  ormai consolidata la norma del diritto all’autodeterminazione terapeutica, laddove viene tutelato  il diritto al rifiuto di cure anche se di sostegno vitale.
In questo senso ed in questo ambito (lontano da derive eutanasiche) può anche dirsi che la giurisprudenza italiana non si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo né sostanzialmente con quella di altri Paesi europei. 
 
di Luciana Riva